L’altra sera ero a casa di amici, si eseguiva musica di Schubert. Uno dei temi ricorrenti in Schubert e, se vogliamo, un caposaldo dell’estetica del Romanticismo in arte è il concetto di dualità e la tensione ad un irraggiungibile ideale.
Schubert dice spesso: Là , là dove tu non sei, là è la felicità.
Con il forte fascino che la tensione a un luogo altro può esercitare, questa idea ha permeato gran parte della mia vita. In alcuni momenti ci ho creduto fermamente e mi sono sentita identificata con essa. E persino da un punto di vista artistico, abitare lo spazio di questo costante dislocamento è stato e può essere molto creativo.
Più di recente mi sono chiesta: ma è davvero così che si deve vivere? O penso così perché ho paura di essere dove sono?
Ma noi vogliamo veramente esserci?
Da quando siedo in zazen, ho visto molte paure apparire e scomparire: la paura di stare dritta nel mondo, la paura degli altri, la paura dei miei pensieri, del mio potere, persino della mia reale natura. Da musicista, ho sperimentato la stessa paura che nutro talvolta davanti al pianoforte, il timore di non essere all’altezza di canoni talmente alti ed ideali da divenire spesso irraggiungibili.
Ho iniziato a notare meccanismi che già intravedevo anche facendo musica, ma non ancora in modo sufficientemente chiaro. Fare zazen mi sembra in questo senso un momento privilegiato per la chiarezza che porta: non c’è altro da fare che stare ed osservare. Tutto prima o poi appare nella sua vera natura. Emergono i confini delle cose e degli stati d’animo, e a seguire le idiosincrasie, i nodi, i meccanismi della mente, le illusioni e le paure, appunto.
Sto camminando in questo tracciato da qualche anno ormai e, pur sentendomi sempre all’inizio, mi chiedo spesso come si possa comunicare lo zen senza banalizzarlo o renderlo esoterico. Non lo so.
Volontà, fiducia e perseveranza? Amore per il lavoro e la disciplina quotidiani? Il sentirsi parte sconfinata di un uno esistenziale? Tutto ciò va bene, certo. Ma forse il bandolo della matassa si trova nell’essere qui, in ogni momento, in ogni respiro, nelle situazioni facili e in quelle difficili, al buio e alla luce, soli e in compagnia, con un sorriso o con le lacrime.
C’è da chiederselo sempre: se non qui, dove?
Stefania
Come parlare dello Zen quando la parola, per sua natura, non permette l’esperienza? Con il paradosso dei Koan la Scuola Rinzai Zen dà , a chi lo cerca, lo strumento per vedere la propria vera natura!!
Buon Anno a tutti.
Ileana
Se non qui… qui.
Ci sono però tanti “qui” diversi per ogni livello di coscienza.
Esplorare i nostri “qui” mi sembra un’utile indicazione di viaggio…
Iniaziando a notare i meccanismi, inizia il processo di disidentificazione. Disidentificazione dal corpo -come lo abbiamo conosciuto- dalle emozioni -come le abbiamo vissute- e dalla mente -come la abbiamo sperimentata. E’ un processo che ci rende liberi di essere ciò che realmente siamo.