Riassunto delle puntate precedenti: Ahmed, seduto in cerchio con i suoi compagni di viaggio, ha svuotato la mente dai suoi pensieri nel primo chiarore di una mattina fresca.
Sarebbe bello potersene stare lì seduti tranquilli per il resto della giornata, a pensare solo a noi, a meditare. Ma si sa, la vita chiama. Presto partiremo, c’è un sacco di roba da preparare e mica possiamo aspettare che il sole sia alto, prima di partire. Va bene che è già autunno e le temperature non sono neanche l’ombra di quelle di solo un mese fa, ma la natura pretende che ci si metta sempre in linea, i tempi li dà lei. E insomma dovrò adattarmi a pensare in piedi, fare due cose in una volta. Il che non mi riesce poi così male dopotutto, sembra quasi che gli uomini siano fatti per vivere come su due piani diversi, uno così, vicino alla sabbia e al pelo delle bestie e uno solo interno, come un po’ più alto, un po’ più finolino, come inafferrabile. Ma il fatto che sia così sottile non vuol dire che non ci sia, bisogna pensarci un po’ e lo si vede chiaramente. Del resto è proprio il mondo più basso, quello pesante che ha la pendenza della sabbia a farci capire che sì lui è lì, ma non potrà mai bastarci, mica siamo della bestie anche noi.
Sono proprio le fatiche, il peso del camminare sulla sabbia smossa che sprofonda, il sudore del primo pomeriggio, lo spiffero che si insinua sotto la coperta e ti sveglia nel mezzo della notte, un cammello che fa le bizze e si rifiuta di rialzarsi, tutte queste piccole cose a indicarci che siamo fatti per altri mondi, che dobbiamo porci altre mete, se solo vogliamo avere un po’ di coraggio di definirci uomini. E non solo queste cose così terrene, ma anche tutte le pene che la vita ci riserva a ogni piè sospinto sembrano essere lì per spingerci via, per sollevarci. Il timore di non poter mandare a Amina i soldi della settimana, questa impossibilità di farci veramente vedere dagli altri, sprofondati nella nostra grande solitudine, di far loro capire che anche noi ci stiamo provando, a fare del nostro meglio, a tirare avanti la carretta, che anche se non si vede anche noi facciamo una grande fatica, al di là dei sorrisi e del buonumore di circostanza.
Ma per me quelle più subdole sono le cose belle che in ogni momento ci irretiscono, vogliono portarci via con la loro malia, che sembrano dirci: ma vieni via con me, sarai per sempre felice! E cosa ne è di uno come me in questi momenti? Come è facile venire spazzati via, troppo suadenti le fantasie degli uomini, troppo perentorio il richiamo del loro cuore. E dopo un po’ cosa rimane? Si capisce che era tutta un’illusione, una crudele macchinazione fatta per sviarci, per riportarci giù vicino alla sabbia piatta e umida, ad un livello umano sì ma anche quasi animale. Fatto di alti e bassi, bello e brutto, amore e odio che si tirano e si strattonano a vicenda, incapaci di mettersi d’accordo, di trovare un attimo di terreno comune.
Ma a pensarci bene, che il disegno non sia proprio il contrario di quello che sembra? Che tutte queste fatiche, queste pene, queste piccole trappole paradisiache non siano lì proprio per condurci da un’altra parte, per indicarci una strada? O piuttosto, per indicarci quali sono le strade sbarrate, se solo le vogliamo vedere, e per esclusione indurci alla ricerca della strada del crederci, ignota e misteriosa, in aspra salita e precipitosa discesa, irta di sassi e fiancheggiata da spine? La strada della fiducia nella realtà così com’è in tutte le sue manifestazioni, che ci porta più vicini alla parte più bella, alta e nobile di noi, in assoluta solitudine? Non la solitudine dell’essere ignorati e non capiti, ma la solitudine del viandante, del guerriero che quel pezzo di percorso deve forgiarselo da solo, pena la sua vita.
Oddio, siamo già in cammino. Ero talmente preso dei miei pensieri che devo aver caricato i cammelli automaticamente quasi senza accorgermene. Con la coda dell’occhio vedo le mie bestie camminare con passo costante al mio fianco e dietro di me. E’ il mio passo, che loro seguono così docilmente. E i nostri compagni, che vengono dietro vigili e attenti, cercando di tenersi ben al passo e di non farsi distrarre, sviare da nulla. Tutto qui sembra così ordinario, soprattutto nell’autunno che nega al deserto la sua caratteristica più violenta e lo doma intiepidendolo. Che senso hanno questi sassi appuntiti, questo letto di fiume secco, questi cespugli radi destinati a un breve periodo di gloria? Che senso abbiamo noi, viandanti anche noi destinati ad un breve periodo di gloria, se non in un disegno più grande, più alto? Mi domando se questo disegno esiste veramente o se me lo sono solo immaginato. Ma, mi dico, se l’uomo ha così tanta facilità a costruirsi i pensieri, tanto vale che siano belli.
(7 – continua)
Un pensiero, un segno, un’azione e’ forse ogni volta una pennellata a quel disegno sottile, quasi invisibile che nel qui ed ora fa percepire la Vita?
Ahmed, il ricercatore, ascolta la sua parte antica e intuisce che niente di ciò che ci accade è casuale e che solo accettando tutto quello che la vita comporta si può finalmente essere liberi. Grazie Alvise.