Riassunto delle puntate precedenti: il nostro Ahmed camminando ha trovato un amico.
Camminare aiuta a pensare. Quel pensare libero, dove i pensieri prima si affastellano, e poi a poco a poco, quasi al ritmo dei passi sulla sabbia, si mettono in fila, prendono un loro ordine, si fanno più radi e più limpidi, e iniziano a lasciare spazio, come se la distesa così vasta del deserto venisse portata dentro e ci facesse sentire più aperti, più ariosi.
Non so perché i primi pensieri che vengono alla partenza sono quelli più cattivi, i più difficili da tenere a bada, invariabilmente carichi di ansia e di dolore. Sono così difficili da scacciare perché ci invadono e anche perché sono bravi a nascondere da dove vengono. Anche se non abbiamo niente di visibile che ci tormenti, loro vanno a pescare giù in basso tutta la sporcizia accumulata, e ce la portano su, nel petto, nella gola. E così ci troviamo a combattere un nemico invisibile, che porta avanti la sua guerriglia in modo subdolo, astuto, molto economico direi, perché sembra proprio che con poco sforzo riesca a farci così tanti danni. E poi, se non è così difficile affrontare una a una le difficolta pratiche del vivere, non so, un cammello con una spina nella zampa, una tappa intera senza neanche lo straccio di un pozzo d’acqua, un sentore di tempesta di sabbia in arrivo, così caratteristica, così chiara, facile da individuare se uno ne ha un minimo di pratica. No, questi sono pensieri tutti confusi, mescolati, come una melma grigia che si rigira nello stomaco, incapace di andare né su né giù, stagnante. Come possiamo combatterli se non riusciamo neanche a capirli, a intuire da dove vengono? E’ come se un confronto diretto fosse inutile, già perso in partenza, una di quelle tipiche situazioni in cui sai di essere troppo piccolo e inadeguato per farti largo da solo. E’ allora che si ha veramente bisogno di quello spazio, che bisogna lasciarlo entrare in noi a poco a poco, senza pensarci, passo dopo passo, respiro dopo respiro. E a quel punto non c’è più lotta, perché non c’è più opposizione. La melma subdola vuole schizzarcisi addosso e noi, piano piano, senza dire niente, senza scatti, ci togliamo di mezzo e la lasciamo passare via. Lei non trova più dove attaccarsi, mica può stare lì diritta a mezz’aria, così ricade, si frantuma e si spappola, recede, si prosciuga.
E oggi ho proprio capito quanto sia bello avere imparato queste cose. Perché quello che prima poteva distruggerci, o almeno lasciarci in un stato di debolezza, di prostrazione, incapaci di fare la prossima mossa, di andare avanti, adesso è diventato un altro passo avanti nella conquista di noi stessi. Il dolore non è riuscito a insudiciarci, ma è diventato quasi uno strumento di crescita, una pietra miliare che ci indica dove siamo arrivati. E forse può anche indicarci, a modo suo, se solo lo sappiamo ascoltare, da che parte andare, quale è la nostra direzione, quali saranno le prossime sfide. E ci aiuterà anche a capire, se non da dove è venuto, almeno il suo senso di prova riservataci sul cammino. Prova necessaria, perché tanto se non ci investiva in quel modo lì, ne avrebbe trovato un altro, più o meno cattivo, più o meno difficile da affrontare.
E quello con cui ci lascia tutto ciò è la sensazione di essere da un’altra parte. Come se qualcosa in noi si fosse staccata e innalzata di un pochino sopra il nostro corpo, e ci permettesse di guardarlo giù con un sorriso di dolcezza, di comprensione, di amore. Ma anche di amicizia, di fratellanza, di calore che protegge.
Visto da fuori, io sono sempre un cammelliere povero dalla pelle scura piuttosto impolverato che cammina sulla sabbia nel deserto con dei sandali un po’ ridicoli ai piedi, ma dentro dentro mi sento un principe vestito di seta azzurra con una spada d’oro scintillante.
(9 – continua)
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